Alcuni giorni fa, sull’inserto del Corriere della Sera “LIBERI TUTTI”, la giornalista e scrittrice Costanza Rizzacasa D’Orsegna nel pezzo “Perché trattiamo gli anziani come bebè?”, sottolinea una pratica ormai di uso comune da parte di tanti. L’autrice scrive della “piaga ”: un modo di parlare degli anziani in modo sufficiente, paternalista, quasi come fosse un individuo da compatire per quello che è anziano!

In effetti, in passato l’anziano si trattava con rispetto e riverenza: veniva chiamato “maestro”, o magari con il titolo di studio che l’aveva caratterizzato nella sua vita lavorativa, anche se era in pensione o fuori dal contesto lavorativo, la qualifica rimaneva: si era comunque il “professore”, “avvocato”, “dottore” e così via. Era come il modo per attestare il rispetto per l’impegno di una vita, quasi un riconoscimento e una deferenza dovuta al fatto che se oggi noi viviamo in un mondo nel benessere e in pace  è anche grazie al lavoro, alla fatica e alla dedizione di chi ci ha preceduto.

Oggi, questa deferenza, si è rarefatta e trasformata in un modo di dire, tanto per licenziare l’anziano con un tono che spesso intende affermare: “Si, va bene, una volta si faceva così, oggi però è tutto cambiato. Lascia fare a chi conosce le nuove procedure”.

E come per compensare questa espulsione, più o meno delicata, dal mondo delle attività concrete, materiali, impegnative – non solo nel mondo del lavoro -, si utilizza un linguaggio come “compensativo”, vezzeggiativo. Non più quello deferente per il ruolo ricoperto in una vita, ma espressioni in tono paternalista, sottolineate dall’autrice Rizzacaca D’Orsegna: “Cara, tesoro, signorinella bella, bella fanciulla…”.

Tutte espressioni usate per signore di una certa età, vezzeggiativi pronunciati con un tono condiscendente, che sono offensivi ed irrispettosi. È una pratica diffusa e che la Prof.ssa di Psicologia Becca Levy, all’Università di Yale, definisce “elderspeak”. Altro non è che una tipologia di parlare diversa dall’usuale, utilizzata in particolar modo verso chi è in difficoltà, magari anziano e quindi con difficoltà uditive, e quindi con una parlata a volume esageratamente alto e con un tono compassionevole (come per dire: e che ci volete fare, è anziano, sennò non capisce!). In Inghilterra e negli Usa dove si è registrato e analizzato il fenomeno è nato in conseguenza una sorta di movimento di sensibilizzazione con delle linee di pensiero semplici e chiare: prima di tutto usare sempre nome e cognome per chiamare gli anziani, sia perché non perdano l’uso del nome e la capacità di relazionarsi, perché oltre al rinunciare alla loro casa e alla propria intimità ed indipendenza non rinuncino anche alla propria persona e alla loro storia. 

Questo modo diverso di comportarsi, più che favorire l’inclusione nella società porta con sé, invece, il rischio di umiliare e di escludere nuovamente gli anziani perché capiscono di essere di peso; sentono il peso di una personale improduttiva. La conseguenza non è altro che una ritirata, una chiusura in se stessi, non più per i problemi di comunicazione o comprensione, ma perché si percepiscono come un peso o inadatti ad un mondo che ora corre troppo per loro.

Una lettura di una vita senza più un ruolo o un impegno che fornisce concreto, che dia una gratifica o un senso al vivere quotidiano, può essere l’anticamera della scelta di ritirarsi definitivamente. Eppure gli anziani sono ancora utili e necessari alla società.

Quante famiglie, se non avessero i nonni non saprebbero come fare con i bambini in caso di malattia o di imprevisti lavorativi dei genitori? Oppure, per le vacanze? Pensiamoci…….

Germano Baldazzi