Se non siete ancora andati a vederlo, affrettatevi  a farlo, prima  che il capolavoro di Hirokazu Kore-eda. “Un affare di famiglia” scompaia dai circuiti della grande distribuzione.

Il film, Palma d’oro al Festival di Cannes, merita di essere gustato davanti al grande schermo, per la purezza dell’immagine e dei colori di un inedito Giappone, visto da una periferia di bidonville.

Lo spettatore entra in questo mondo attraverso  gli occhi di un bambino povero, esperto ladruncolo, amatissimo e protetto dalla sua famiglia, che scopriremo solo in seguito essere alquanto anomala, anche se molto più umana di tante famiglie “normali”.

La storia inizia con un atto di generosità: la decisione dei suoi genitori di accogliere  e sfamare una bambina affamata e abusata dai suoi. A poco a poco si entra nella vita di questa famiglia povera, ma molto unita e si comincia ad apprezzare il clima carico di affettività, che si respira fra le mura della loro baracca.

La regista occulta della trama familiare è la nonna, che dichiara senza mezzi termini di essersi scelta questa famiglia per non affrontare la vecchiaia da sola: è lei il perno ed UnaUna anche il motivo del loro stare insieme.

Ecco allora una famiglia ricomposta, che “funziona” meglio dei legami di sangue. I suoi membri  sono dipinti come  ladruncoli,  “reietti colpevoli” ma felici perché amabili; chiusi al mondo, ma aperti l’uno all’altro, teneri con i piccoli e innamorati della nonna anziana, che li comanda a bacchetta.

Una famiglia scelta contro l’isolamento, destino di tanti anziani e non solo: una vera anomalia per una società dove si registrano 30.000  casi l’anno di morti solitarie , per lo più di anziani che muoiono da invisibili, dimenticati per mesi nelle loro abitazioni e dove per affrontare questo fenomeno di massa si è dovuto inventare un termine “Kodokushi” e un’agenzia apposita, che si occupasse di sgombrarne gli appartamenti.

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