Volentieri proponiamo l’articolo a firma di Sergio Casali, pubblicato da Il Secolo XIX del 9 marzo 2023.

Giovani e anziani possono essere alleati. Da paura e fragilità si guarisce insieme.  Come rispondere ai bisogni di una società che invecchia

Alcune settimane fa, durante una lezione, Silvia, una ragazza intelligente e disciplinata, ha alzato la mano e, non senza un certo pudore, ha pronunciato una frase pesante come un macigno: «Prof, è brutto da dire, ma la strage degli anziani nelle Rsa durante la pandemia ci
ha fatto risparmiare un sacco di soldi». Quelle parole mi hanno colpito con tanta durezza che ci ho messo un po` prima di metabolizzarle e riuscire a balbettare una risposta. Anche Silvia era un po` spiazzata nel vedere la mia indignazione e la mia tristezza di fronte ad un’espressione così feroce, tanto che qualche giorno dopo mi ha cercato e, nei corridoi della scuola – che sono spesso il luogo delle conversazioni più autentiche – mi ha detto, con le lacrime agli occhi: «Guardi però che io a mia nonna le voglio bene».

Questa discussione mi è tornata in mente alcuni giorni fa, quando sulle pagine del Secolo XIX ho letto gli articoli collegati ai maltrattamenti agli anziani nella Rsa di Arma di Taggia. Non si tratta solo di commentare un doloroso fatto di cronaca, ma di porsi in modo responsabile davanti ad una delle sfide più rilevanti del nostro tempo, quella che ci è lanciata dalla rivoluzione demografica. Di capire come “rispondere ai bisogni di una società che invecchia”. Il primo passo, quindi, è “capire”. Perché per l’invecchiamento di massa avviene qualcosa di molto simile a quello che vediamo accadere per le migrazioni: entrambi sono processi che, semplicemente, non possiamo ostacolare, chiudendo gli occhi, negandoli, continuando ostinatamente ad applicare all’oggi le categorie e le soluzioni del passato.

Occorre piuttosto interpretare e gestire i cambiamenti in atto, con intelligenza e lungimiranza e per questo sono necessarie una politica capace di elaborare soluzioni nuove e una cultura che sappia nutrire visioni. La politica ha iniziato a muoversi, soprattutto dopo il numero altissimo di deces- si avvenuti all`interno delle Rsa durante la fase acuta della pandemia da Covid-19: il Consiglio dei ministri ha approvato recentemente una legge delega (ora all`esame del Parlamento) che prosegue il lavoro della Commissione istituita dal governo Draghi e vuole realizzare una riforma innovativa, garantendo agli anziani e alle persone con disabilità l`assistenza e le cure il più possibile presso la propria abitazione in modo da evitarne l`isolamento. Tuttavia, per rispondere ai bisogni di una società che invecchia non è sufficiente un’iniziativa politica: le decisioni pubbliche devono essere sostenute da un lavoro culturale, come quello che nell`Ottocento “inventò” l`infanzia come una stagione della vita autonoma. Anche per la nostra generazione – che ha ricevuto in dono dal progresso due o tre decenni di vita in più rispetto a un secolo fa – è arrivato il momento, come afferma da tempo monsignor Vincenzo Paglia, di “inventare la vecchiaia”, cioè di cogliere il senso umano, sociale e spirituale di questa “nuova” stagione della vita, per affermarne la specificità, per trovare un suo spazio, per non viverla come un naufragio, ma come una risorsa.

Qual è il talento dei nostri anziani? Quale sarà il nostro talento da vecchi, un talento
da coltivare possibilmente già durante l’età adulta? Paradossalmente, sono proprio i giovani e gli adolescenti come Silvia, quelli che più di tutti sono vicini alla risposta. Sì, perché, se da un lato sono cresciuti nella “società dell’eterna giovinezza” – che riconosce solo i valori della performance e della produttività e gli fa dire che i vecchi sono improduttivi e quindi inutili – dall’altro hanno la pelle sottile e sentono l’istintivo senso di tenerezza verso i loro nonni, che, più e meglio di noi adulti, spesso trasmettono il valore della cura e dell’affetto, “il lato morbido della vita”, come mi ha detto tempo fa un ragazzo. E, ancora più paradossalmente (come ha sottolineato recentemente Francesco Stoppa nel libro “Le età del desiderio”), nel processo di invenzione di questa nuova età, proprio i più giovani – che siamo abituati a descrivere così insicuri e irrisolti – possono aiutarci. Sì, perché in un mondo che descrive la fragilità come una malattia sono i vecchi gli unici che smascherano il grande inganno e affermano, anche solo con la loro presenza, che la fragilità e l’irrisolutezza sono parte costituzionale della vita, che ciò di cui abbiamo bisogno non è l`indipendenza, ma una serena interdipendenza.

Nel mondo dominato dall`economia, adolescenti e anziani possono essere competitors per l`utilizzo delle risorse economiche, oppure possono allearsi, perché entrambi stranieri nel mondo costruito a misura di adulto, per cambiarne finalmente le categorie.

Nella sua “Lettera a un vecchio”, Vittorino Andreoli ha scritto: “La fragilità è parte della condizione dell’essere umano. Un uomo senza fragilità, perché la dimentica, avrebbe bisogno di guarire andando a trovare un vecchio, un saggio della fragilità”. Allora forse il primo semplice passo per preparare il terreno culturale a nuove politiche attive per gli anziani è quello di prendere per mano i nostri ragazzi e accompagnarli a trovare i loro nonni – oppure, forse, lasciare che siano loro ad accompagnare noi – perché dalla paura della fragilità si guarisce solo insieme.